Intervista a JAMES CAMERON
Questa intervista è stata realizzata da Don Shay, della rivista CINEFEX nell'estate del 1986. James Cameron discute il suo approccio alla sceneggiatura e alla regia del film Aliens.
Legenda
JC=James Cameron
DS:Don Shay
JC: Nel girare il seguito, di un film, vantaggi e svantaggi si compensano a vicenda. Uno dei vantaggi è che si possono prendere le nozioni già acquisite dal pubblico e quindi giocare in contropiede, con degli sviluppi contrari alle loro aspettative. Se lo si fa un modo non ostile verso gli spettatori, capiscono che è anche divertente e che il film sta giocando un po' con loro, ma che li chiama anche a partecipare attivamente. Dimostra che i registi presuppongono un certo livello di conoscenza da parte loro.
Quello che ho cercato di fare con le scene di Aliens di cui si parla è farle funzionare anche senza aver visto il primo film. Anche senza conoscere il primo film, le scene hanno una loro coerenza, ma al tempo stesso implicazioni più profonde per quelli che avevano visto Alien. Si collega all'idea che il film deve essere un'esperienza attiva, piuttosto che passiva. Questo è uno dei vantaggi principali del realizzare un secondo episodio, se ci si riesce.
DS: Immagino che uno dei problemi principali sia spiegare perchè Ridley abbia... (sbaglia a pronunciare e ridono)... Ripley abbia deciso di tornare, ed è stato risolto elaborando il tema militare, per cui tornano con la missione di distruggere.
JC: Pensando alla trama... come fa il pubblico ad identificarsi in una persona che si espone ancora una volta ad un grave pericolo quando qualsiasi persona sensata e intelligente non tornerebbe mai e poi mai vicino a quel maledetto alieno, potendo scegliere? Allora ho esaminato diverse soluzioni possibili. In una la nave si avvicinava per caso al pianeta, ma questo non rispettava lo spirito della storia. Succedono diverse cose. Innanzitutto le offrono un lavoro, ma non è un motivo sufficiente. Le promettono protezione, già meglio, le danno una squadra di marines, quindi si sente relativamente protetta se deve tornare indietro, ma il vero motivo è di natura catartica, psicologica. Ci deve essere una... motivazione interiore, che anche se la gente non può capire, può anche non essere d'accordo e pensa che non sia sufficiente, almeno vedono che c'è un motivo valido. Si riferisce a quel tipo di esperienza che provano persone che si sono trovate in situazioni molto stressanti. E' un comportamento studiato a fondo quando ci si trova ad un passo dalla morte, in un incidente o in combattimento, ci si fissa su questo momento e lo si rivive in continuazione. Come quelli che tornano in Vietnam, anche se rappresenta il momento peggiore della loro vita.
DS: Ron Cobb, uno dei disegnatori principali del film, ha detto che all'inizio tutti sapevano di star facendo un film sul Vietnam ambientato nello spazio.
JC: E' in parte vero, ma secondo me, tutta l'esperienza del Vietnam è stata quasi fantascientifica, nel senso che è stata la prima guerra ad alta tecnologia contro un nemico privo di tecnologia, che è stata persa. e questo secondo me è molto strano. Ha dimostrato i limiti della tecnologia e questo tema viene ripreso dal film. Ci si chiede, perché stiamo perdendo?
DS: Immagino che avrete pensato, all'inizio del progetto: per realizzare Alien c'è voluto tanto tempo, impegno e soldi per un solo... alieno...
JC (ridono): Uno solo.
DS: Adesso nel film ce n'è un intero pianeta.
JC: Centinaia!
DS: Dovete aver avuto paura di non riuscire a realizzare l'idea.
JC: Si, è stata dura. Infatti, lo studio non era sicuro che ce l'avremmo fatta. Ho dovuto
giurare sulla Bibbia, per così dire, che avrei girato solo con sei costumi, e così è stato. Ci sono solo sei mostri per volta nelle inquadrature. E' solo col montaggio che si ha l'impressione di vederne di più, perché vengono da angoli diversi, ma sono sempre gli stessi sei attori.
DS: Come un western di serie B con solo sei mucche?
JC (ridono): Esatto... Anche Roger Corman ha detto di aver girato la caduta di Roma con cinque comparse e un cespuglio! E credo che l'abbia fatto davvero. Non ho mai visto il film, ma... ad ogni modo il principio è lo stesso. Il fattore è che ci vuole tutta l'abilità, le mie capacità di regista, e dei miei collaboratori, i cameraman, gli addetti agli effetti speciali per sfruttare al massimo queste sequenze brevissime e renderle il più credibili possibile. Inoltre ho anche cercato di rendere gli alieni interessanti dal punto di vista dinamico.
Abbiamo sperimentato a lungo vari modi per farli muovere: appesi a cavi, filmando a velocità diverse, ribaltando i set, con la cinepresa al contrario... tutti i trucchi possibili e immaginabili per dare loro questo strano effetto dinamico, di movimento inumano. E poi, comunque, credo che il pubblico sarà bombardato da talmente tante immagini che alla fine dirà semplicemente "Va bene, sono solo alieni, non sono attori travestiti". Insomma, per spiegarmi, mi sono concentrato più sul movimento che sui disegni. I disegni sono rimasti più o meno quelli che aveva realizzato H.R. Giger per il primo alieno, quello di Alien, la versione adulta formato naturalme, di chi ne avevamo già diversi. Abbiamo dedicato la maggior parte del tempo di ricerca e sviluppo al movimento, perché ritenevo che i balzi veloci, da lucertola, da insetto, fossero più importanti del disegno fisico, scultoreo dei costumi. E questo è un errore che fanno molti truccatori e costumisti quando affrontano problemi di questo tipo. Dedicano troppa attenzione ai particolari scultorei, alla consistenza delle superfici, eccetera, dei costumi e non capiscono che alla gente bastano pochissimi elementi informativi per individuare una figura umana, e il movimento è il fattore indicativo principale. Il modo in cui camminiamo è talmeno impresso nella nostra mente, che lo si individua subito. Abbiamo però rielaborato il costume, semplificandolo, lo abbiamo liberato per renderlo molto più flessibile, e lo abbiamo fatto indossare a ginnasti e acrobati. Quindi li abbiamo appesi a dei cavi e gli abbiamo detto di comportarsi come lucertole. Si è trattato, insomma... era... era uno studio sul movimento e sul movimento non umano. Ma c'è un'altra forma vivente, diversa dagli alieni più piccoli, che abbiamo chiamato alieni guerrieri, come le formiche soldato che difendono il formicaio. C'è un'altra forma dell'alieno, la Regina, che ha un profilo e una geometria completamente inumani. Decisamente non poteva essere un attore travestito, e lo si vede chiaramente.
DS: La regina, dal punto di vista teatrale, ha la funzione di "deus ex machina". Serve a dare un finale diverso al film, e immagino che uno dei fattori principali sia anche stato il desiderio di mostrare qualcosa che nel primo film non c'era. I mostri che si attaccano alla faccia, che escono dal petto e l'alieno adulto c'erano già nel primo film.
JC: La regina ci ha dato l'opportunità di disegnare un essere nuovo rispetto al primo film. Un terreno completamente inesplorato. In definitiva di creare un nuovo organismo, e quando si vede la regina su quella specie di "trono" biomeccanico con il sacco pieno di uova, si capisce istintivamente che cosa rappresenta, credo. Si vede da dove vengono le uova, si vede il suo rapporto con loro e tutto il resto, poi la togliamo da quel contesto e le facciamo fare altre cose.
Avevo già un'idea di come doveva essere questo mostro che si ispirava ai disegni di Giger. H.R. Giger, l'artista svizzero, e disegnatore. E poi proseguire sulla stessa linea di filosofia artistica, ma allo stesso tempo aggiungere nuovi particolari di dimensioni, velocità e grazia, e certe caratteristiche femminili che gli altri alieni non possedevano. Quindi l'ho disegnata personalmente, ne ho disegnato diverse versioni, e la prima bozza che realizzai era molto vicina al modello finale.
DS: Non so se è una coincidenza, ma sembra che in Aliens, il film inizi con un sogno e finisca con il riferimento ad un sogno. Ripley è terrorizzata e non riesce a dimenticare il sogno. Questo è l'impulso che la spinge a tornare sul pianeta. Alla fine del film, Newt, mentre entra nella camera di ibernazione dice "posso sognare?". Il sogno è un fattore tipicamente umano. Come ti poni rispetto a questo?
JC: Non so se è qualcosa di personale o comune a tutti. Per le immagini attingo molto dai miei sogni, e penso che siano un'esperienza mentale e un'ispirazione per immagini, concetti, situazioni e così via. Credo che i sogni siano un'esperienza comune a tutti. E' un modo per scendere ed esplorare un po' ciò che ci circonda, ed è ciò che fanno i film, sopratutto quelli di fantascienza. Un film come Aliens è in pratica un brutto sogno molto lungo, a pensarci bene. Alla fine ti svegli ed esci dalla sala. Ecco cosa credo che sia, ti lega a paure profonde e incosce che per la gente sono universali. Paura di luoghi claustrofobici, paura del buio, dell'acqua, del fuoco, dell'altitudine, tutto quello a cui riesci a pensare. Molte delle tensioni, per così dire, freudiane, sono riportate nei disegni delle creature e nella minaccia implicita. In questo film in particolare, in Aliens, era anche un modo per unire la personalità di Ripley a quella di Newt. Entrambe hanno lo stesso incubo e questo le unisci, in un certo senso le rende un'unica persona. Guardare Aliens è come partecipare alle loro esperienze, le esperienze nel film, ed è come attraversare questo tunnel lungo e buio, ma alla fine ne esci fuori bene. Possono sognare di nuovo, sognano paesaggi in cui non ci sono queste creature, da quel momento in poi. E' l'idea che la prima volta Ripley sopravvive, ma non mentalmente. Psicologicamente è un caso disperato. Alla fine di questo film, si ha la sensazione che sia sopravvissuta non solo fisicamente, ma che sia veramente in salvo, e che stia bene. In questo senso il film ha un finale migliore.
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